This is the blog for Franko B's sculpture class at Accademia di Belle Arti di Macerata, Italy.

1500 parole (oggetto trovato-paura)

All’interno della mia frequentazione del laboratorio di scultura, ho deciso di affrontare il tema
dell’oggetto trovato e quello della paura, tentando di mettere in opera il rapporto tra la presenza e l’assenza che al medesimo tempo segnano e giocano sin dal principio la fisicità degli oggetti, la presunta semplice visibilità dei corpi, e il loro senso: l’apertura di senso.
Un venir meno del senso per così dire, non temporaneo, in quanto l’esistenza di ciò che chiamiamo cose, oggetti, tempo, e quello che crediamo essere il nostro rapporto con essi, è un infinito venir meno. E’ l’esistenza tutta un venir meno.
Apertura come mancanza e come “strappo” d’origine.
A questo proposito gli elementi che ho trovato, e, che ho trovato pertinenti a questa perpetua oscillazione del senso, sono stati, la cenere e dei televisori a tubo catodico, nonché, lo spazio in cui questi hanno avuto la possibilità di attestarsi prendendo e perdendo corpo, il loro corpo più o meno reale o più o meno virtuale.
Sia la cenere, che l’oggetto-televisore – televisore acceso ma privato di qualsivoglia immagine rappresentativa – sono due forme di bruciatura, o meglio, non sono che bruciature informi, due anonimità che nel secondo dei 3 lavori che ho realizzato con questi elementi, ho anche messo direttamente a confronto, l’una di fronte all’altra.
Sono, due forme bruciate, dissolte, grattate via, l’una apparentemente naturale, l’altra apparentemente artificiale, riconducibili entrambi però a un medesimo artificio: la cancellazione di un inizio perché qualcosa abbia inizio.



1° lavoro


resta ciò che


La cenere; resta ciò che Là cenere.

Sin dal titolo, questo lavoro che ha come oggetto la cenere, la cenere “trovata”, comincia con l’atto del restare e termina con l’atto del mancare.
La cenere, o resta ciò che, è un lavoro che ho deciso di presentare in quattro parti.
La prima parte registra fotograficamente l’operazione preliminare, e peraltro completamente esterna al lavoro vero e proprio in cui si fa là cenere: fuoco alla cenere; nella seconda e nella terza parte invece, la cenere viene esposta e fotografata o in un contesto ai limiti della rarefazione, come nel primo caso, o in un contesto in cui la cenere gioca con il fondo e tende a confondersi con esso, come nel secondo caso.
Nella quarta parte infine, la cenere viene inserita all’interno di semiscatole che simulano degli ambienti vuoti, ambienti anch’essi fotografati, ma che nondimeno verranno esibiti nella loro fisicità.
In ogni caso, in tutte e tre queste situazioni succitate, che la cenere si addossi ad un muro, si componga in un mucchio o una “montagnetta”, che si sparpagli o si innesti, quasi pittoricamente in una sorta di paesaggio prosciugato, la cenere, dico, allude sempre ad una lontananza ed è sempre segno di un qualche cosa d’altro, che tuttavia, non si trova e non si può trovare.
Non si trova perché là vi è cenere, non qui. La cenere come quella cosa che nel momento in cui si trova, là si perde, se ne perde l’origine: il che fu.
Resto di fuoco che non resta, la cenere è un niente che traccia senza rintracciare, resto non di qualcosa, ma resto in quanto tale: Cenere in persona.
La cenere trovata pertanto, diviene l’oggetto perduto di una memoria di cenere a sé di-stante. Memoria di fuoco, o, memoria bruciata che dis-fa la cenere, e che anziché darle luogo, dà luogo al luogo.
Luogo della cenere, luogo della vanità



2° lavoro


tele cenere



In questo lavoro mi sono concentrato sulla relazione tra un mucchio di cenere e un televisore a tubo catodico (televisore sì acceso, ma privo della sua funzione di produrre suoni e immagini, privo di segnale insomma: il televisore, quando “fa la neve”).
In una stanza a pianta circolare ho posizionato, distanziati di qualche metro, il televisore, a ridosso di una piccola porzione di parete, e il mucchio di cenere, al centro dello spazio. Li ho posti perfettamente uno di fronte all’altro: uno per l’altro.
Così posizionati questi due elementi, seppur di differente natura, dichiarano immediatamente una forte corrispondenza, corrispondenza che non sta tanto nella grandezza non troppo dissimile delle rispettive masse corporee (quella data sin dall’inizio del televisore, e quella ottenuta per semplice principio di accumulazione della cenere), ma sta piuttosto in quello che accade, è accaduto e accadrà nei loro corpi.
In tutti e due si fa’ la cenere. Una bruciatura li ha inceneriti entrambi, l’uno – la cenere – nel corpo che gli fu proprio, l’altro – il televisore – nella sua emissione corporea.
La cenere ha perso il corpo originario e si conserva come una sorta di perdita a sé stante, il televisore ha perso la sua potenza di produrre immagini e si conserva come un corpo vacante.
Il televisore è un esterno vuoto (privo di funzionalità) che del suo interno serba solo la “cenere”, il mucchio di cenere è un interno vuoto (privo di quello che chiamiamo senso) che di esterno serba solo un resto, un resto in quanto tale; un resto che fatica ad essere un corpo.
Il motivo centrale di questo lavoro è allora lo spazio della perdita, o più precisamente lo spazio di due differenti perdite messe a confronto, la distanza che separa e che congiunge queste due perdite.
Una distanza che innanzitutto dà luogo, o attraverso la quale, hanno luogo, tanto il verificarsi naturale-fisico della cenere, quanto il verificarsi artificiale-virtuale del televisore, una distanza che nel suo dare inizio non cessa di mantenere distante proprio il medesimo luogo dell’inizio.



3° lavoro

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Questo lavoro pone in questione la frantumazione del visibile in seno ad uno spazio che non si dà mai come tale, e lo fa, ponendo in esame il rapporto tra interno/esterno, virtualità/corporeità, immaterialità/materialità di due televisori a tubo catodico, che non solo sono in se stessi differenziali, ma lo sono anche nella loro reciprocità.
I due televisori infatti, posti uno di fronte all’altro in una stanza a pianta circolare, emettono uno: la fissità immutabile della “neve”, l’altro: un continuum di schermate totalmente scure, alternate a schermate completamente bianche.
In ambedue i casi l’immagine salta in favore di una “visione” iconoclasta (le urla in favore di Debord) che non mostra nulla, se non due macchine che nel momento in cui si incontrano, si sprogrammano, restituendo in tal modo il puro spazio dell’interferenza. La fissità del divenire come interferenza.
L’iconoclastia prodotta dai due televisori, è però già giocata dall’iconoclastia e dall’invisibilità dello spazio che si innesta tra di essi, e che ne rende possibile la corrispondenza e quindi la locazione dei corpi-significanti.
Questo vuol dire che non solo qualcosa accade nei due televisori, ma accade anche nello spazio tra i due televisori, spazio che si de-costituisce come una sorta di evento puro. Ciò che si crea è solamente uno spazio critico, uno spazio collocato al di fuori dello spettacolo.
Attraverso un dopo: il posizionamento dei due televisori, già per conto proprio svuotati dall’immagine, si mette in opera un prima: la presenza complessa di uno spazio che è infinitamente differito in un prima dello spettacolo e in un dopo dello spettacolo.
Oscenità (dall’etimo: o-skenè) di uno spazio che è sempre posto in essere senza esser(ci), spazio che immette lo spettatore in una sorta di “evento pauroso”, un evento senza spettatore né spettacolo che invita il visitatore ad accedere ad una prossimità con l’esperienza, non mediata dalle immagini.
Un’esperienza, dunque, che coincide innanzitutto con l’idea stessa di spazio e con quella che viene chiamata paura, la paura che diviene qui, ciò che nel suo non essere visibile è la condizione e la traccia del visibile. Allo spettatore non resta che essere preso o com-preso, e inscritto, in questa invisibilità che oscenamente si può far corrispondere appunto, proprio al concetto aperto di paura.
Che cos’è infatti la paura, se non quell’evento che nell’immediatezza dello spavento, non si vede, e non si può vedere; la paura è ciò che ci pone di fronte all’invisibile, è l’essere in balia di forze impercettibili che precedono e offuscano sempre e indicibilmente ogni spettacolo.



Questi 3 lavori dunque, si possono considerare essenzialmente come una piccola serie in cui vengono presentate alcune variazioni di un’operazione unica: la cancellazione sempre all’opera in seno alla presenza.
La presenza sparuta delle cose che vediamo, che incontriamo, che troviamo.
Il rapporto che abbiamo con le cose e con gli spazi in cui queste sono inserite, in realtà non è un rapporto di memoria tout court, ma rivela piuttosto una cancellazione di questo tipo di memoria. Le cose non hanno quella che noi chiamiamo memoria, siamo noi che la conferiamo ad esse, che diamo loro un senso, che cerchiamo di afferrarle e di braccarle, arrivando alla fine (?) a nominarle.
Ed è proprio questo arbitrario conferimento di senso, che noi diamo alle cose o agli accadimenti, che ne attesta appunto la mancanza e il ritirarsi ostinato. Un perpetuo ritirarsi del senso che non essendoci mai dato di concepire fino in fondo – perché bisognerebbe concepire il fondo senza fondo – ci sgomenta.
Ciò che fa paura, o meglio, ciò che è la paura, e non il suo pensiero, il pensiero di un qualcosa che spaventa, non è ciò che si può vedere o mentalmente organizzare all’interno di una determinata situazione, ma è l’impossibile incontro che casualmente si fa con un qualcosa, che, proprio in quel medesimo momento non si può vedere: “l’incontro con il senso aperto”.
Ciò che forse ci fa più paura, e, che è indissolubile da essa, è il timore di non poter più vedere, in un istante di reale paura, noi stessi. Il Mancare in persona.










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