This is the blog for Franko B's sculpture class at Accademia di Belle Arti di Macerata, Italy.

1500 parole su Anish Kapoor

Il lavoro di Anish Kapoor, artista di origini indiane nato a Bombay nel 1954, si può considerare a metà strada tra scultura, design e arte pubblica. Nato da padre indiano e da madre ebrea irachena, si trasferisce nel Regno Unito giovanissimo, portando con sé un bagaglio culturale ricco e complesso.
Stabilitosi a Londra sin dagli anni ’70, ben presto Kapoor riesce ad ottenere con i suoi originali lavori un ruolo di spicco nella New British Sculpture, nome con cui la critica indicò la nuova scena della scultura inglese degli anni a seguire. Erano queste opere, una serie di installazioni volte ad indagare un uso più ampio del mezzo scultoreo, che da un lato lo ponevano in sintonia con alcune esperienze degli anni ’60, come ad esempio l’arte povera, e dall’altro mettevano in evidenza la sua ferma intenzione di aprire la scultura a forme inedite e innovative.
E’ chiaro comunque, sin da quegli anni, che le sue opere indugiano sulla dialettica degli opposti: luce e tenebre, femminile e maschile, interno ed esterno, ed è l’utilizzo del colore nella sua purezza a diventare elemento costante dei suoi lavori, nonché simbolo della sintesi della cultura orientale e di quella occidentale.
Il percorso artistico di Kapoor si compone essenzialmente, nonostante la molteplicità di opere e soprattutto dei diversi materiali, dimensioni e forme utilizzati per realizzarle, di due fasi che definirei complementari. Alla prima appartengono le opere dei primi anni ’80, oggetti scultorei con forme tra l’astratto e il naturale, completamente ricoperti di pigmento puro, il cui intenso colore occulta l’origine di manufatto e suggerisce l’idea di una visione che si protende al di là dell’oggetto stesso.
La seconda invece, negli anni ’90, è la fase in cui approfondisce quelle che gradualmente diventeranno le sue caratteristiche principali: sculture di dimensioni sempre più monumentali e che rappresentano la sua personale visualizzazione del vuoto, reso percepibile da una cavità che si riempie o da una materia che si svuota.

La serie dei lavori chiamati “1000 names” ad esempio, si inquadra perfettamente nella prima fase della produzione dell’artista. Questi sono oggetti instabili fatti con materiali come il calcare, il legno, il marmo, l’alluminio e il gesso, oggetti dalle forme misteriose, geometriche o biomorfe, coperte da pigmenti coloratissimi che sono un chiaro rimando all’immaginario cromatico indiano.
I colori più frequenti in queste opere sono soprattutto quelli caldi, colori dotati di una luminosità specifica quasi propria, un chiarore che a volte convive con l’oscurità, con una zona che resta oscura, come accade nel lavoro intitolato “Buco e vaso”, del 1984. Si tratta di una sorta di vaso che all’esterno sviluppa forme organiche assimilabili ad un seme o a un frutto dal pigmento rosso acceso, a cui fa contrasto però, il vuoto, nero, di una cavità: lo spazio indefinito dell’interno.
L’opera ha sicuramente connotazioni marcatamente simboliche sulla dinamica degli opposti: vita e morte, fisica e metafisica, uomo e donna.
Riguardo al colore rosso inoltre, c’è da dire che esso ha per l’artista, una molteplicità di differenti letture, tra cui, il significato di passione, del sole che tramonta, e soprattutto, il senso di interno, è un colore ovvero, che rimanda direttamente all’interno del nostro corpo.
Non manca tuttavia nei suoi lavori, la presenza di colori come il giallo e il blu, colore quest’ultimo di evidente connotazione esoterica che introduce lo spettatore alla dimensione del sublime, del trascendente e dell’infinito. Kapoor utilizza il pigmento blu, o meglio, di un particolare tipo di colore blu, per smaterializzare le forme e renderle impalpabili, spingendole quasi a una dimensione aerea che non permette di comprendere fino in fondo la reale natura di ciò che si sta osservando.
Sempre degli anni ’80 poi, sono i lavori in cui si concentra sull’analisi della verità intrinseca della pietra, sul suo corpo; a questo proposito si serve di diversi materiali come il granito, il marmo di Carrara, l’ardesia o la pietra arenaria, attraverso i quali realizza, opere come “Void Field”, del 1989.

A partire circa dalla metà degli anni ’90, Kapoor si dedica ad una peculiare esplorazione del concetto di vuoto, realizzando opere che sembrano, e alle volte lo sono, opere che spariscono in pavimenti o pareti, al fine di destabilizzare e disorientare le nostre ipotesi sul mondo fisico. E’ questo il periodo dei lavori a superfici specchiate che riflettono o assorbono la luce e la realtà circostante; ne sono un esempio pregnante “Inside Out”, del 1995, o “Double Mirror”, del 1997.
Queste opere configurano degli oggetti che in qualche modo diventano luoghi, che invadono lo spazio della sala (o in altri casi della città), e lo assorbono fino a renderlo parte dell’opera stessa. Sono sculture che ingannano l’occhio e servono come spunti a una meditazione che è al medesimo tempo mistica e razionale.
Una meditazione che provoca un senso di sconfinamento rispetto allo spazio fisico occupato dall’oggetto, ma che passa proprio attraverso una dimensione fisicamente percettiva in cui l’unico mezzo di conoscenza sono i nostri sensi ed il nostro corpo.
E’ propriamente la nostra percezione delle superfici, della pelle per così dire, di questi oggetti-sculture, che attiva il momento della tensione e dell’azione dell’opera; la superficie della scultura si fa luogo, ed è il luogo nel quale avvertiamo il cambiamento a partire dal nostro senso della presenza e dell’assenza, o della solidità e dell’intangibilità. Ciò che in breve fa Kapoor, è focalizzarsi sulle proprietà attive o di trasformazione dei materiali che usa, per giungere alla creazione di quelli che lui chiama: “non oggetti”. Sintomatico in questo senso, è il suo lavoro del 2006 intitolato “Sky Mirror”, un’opera che si trova nel bel mezzo di una città – New York – quindi un’opera urbana.
Si tratta di una scultura circolare in acciaio inox poggiata su di una piattaforma di pochi metri sopra il livello della strada, costituita da un lato concavo angolato verso l’alto, che riflette il cielo e una parte capovolta del Rockefeller Plaza, e, da un lato convesso che riflette una “inquadratura” più terrena, compresi anche gli spettatori che si trovano negli spazi adiacenti.
Questo oggetto muta la sua riflessione, e quindi la sua apparenza a seconda che sia giorno o che sia notte, ed è una scultura che, nonostante la sua monumentalità, fa pensare a una sorta di finestra o sembra quasi perdersi nell’ambiente circostante.
Un altro lavoro fra i più celebri di questo filone, è sicuramente “Cloud Gate”, opera pubblica anche questa, realizzata tra il 2004 e il 2006 per il Millennium Park di Chicago. In questo caso si tratta di un enorme monumento a forma di fagiolo lungo diciotto metri e alto nove, che si trova posizionato in mezzo al pubblico. Il suo corpo, completamente lucido, è stato realizzato con piastre di acciaio inossidabile, saldate insieme senza mostrare cuciture di alcun genere. E’ un’opera senza centro, il cui disegno è stato ispirato dal mercurio liquido, che agisce da grande specchio deformante, riflettendo d’un sol colpo il paesaggio che lo circonda (compresi gli spettatori) e il cielo, in un’unica superficie.

Anish kapoor non si ferma quindi, soltanto alla realizzazione di sculture, o comunque di sculture da luogo chiuso, da museo per così dire, ma si dedica anche a lavori che assumono una vera e propria dimensione ambientale e architettonica, costruendo opere di dimensioni enormi e di notevole originalità.
Un’opera sicuramente insolita per forma e dimensione è la “Taratantara”, lavoro eseguito negli anni ’90 per il Baltic (centro per l’arte contemporanea di Gateshead) che consiste in una gigante tromba lunga cinquanta metri, larga e alta trentacinque.
Sorretta da due grandissime strutture, quest’opera, realizzata con un telone rosso in pvc dalla consistenza simile a una gomma setosa, delimita una zona fisica e insieme psichica, fornita di due aperture. La resa finale affascina per le molteplici letture e analogie che evoca: la visione di un ponte, di un gigantesco papillon, di un tunnel, ecc…

E’ necessario infine notare, che gli ultimissimi lavori di Kapoor presentano una forza e una dichiarata violenza che nei lavori precedenti non era mai stata così evidente.
Nei primi lavori infatti, e non solo, credo ci fosse la volontà di produrre oggetti che dovevano dare l’impressione di autogenerarsi e far scomparire pertanto il gesto dell’autore. I cumuli di puro colore, così come i lucidissimi specchi alteranti, contenevano l’idea della spontaneità: dovevano cioè sembrare, nati dal pavimento, o dai muri, comunque non realizzati da persona alcuna.
Nelle opere recenti questi aspetti credo si facciano decisamente più espliciti, anche per via di forme molto meno gradevoli alla vista: l’artista nei suoi ultimi lavori, viene sostituito fisicamente da macchine presenti in mostra – come per esempio avviene con l’opera “Shooting the Corner”, un cannone che spara contro un angolo grandi proiettili di vasellina rosso sangue – o da macchine che non vengono esibite, ma che hanno realizzato le opere al suo posto.
Bisogna però aggiungere, che nonostante la violenza sia resa come già detto, in modo esplicito e rumoroso, a colpi di cannonate appunto, nonostante cioè, questa marcata mutazione formale, ciò che essenzialmente guida il lavoro di Kapoor, negli anni non sembra essere affatto cambiato.
Così dice l’artista del suo lavoro: “Con la mia opera non tento di lanciare messaggi con una direzione precisa, facilmente decifrabili, non cerco di veicolare le mie idee. Procedo, piuttosto, cercando di generare sensazioni, spaesamenti percettivi, che porteranno a ognuno, diversi, magari insospettabili significati”.

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